L’ospite di questa intervista è stato piuttosto difficile
da avvicinare. Solo al termine di lunghi e pazienti appostamenti subacquei riesco
ad aver ragione della sua naturale ritrosia. Lo sorprendo sulla soglia del suo
rifugio, un’angusta grotta sottomarina lungo i pendii sommersi del vulcano
Manado Tua, nella luce calante del rapidissimo crepuscolo indonesiano.
La sua mole curva acquattata nella penombra occupa quasi interamente il passaggio.
Il profilo dell’occhio a cupola sfaccettata, colpito dagli ultimi raggi
solari, rimanda un riflesso metallico. Uno scricchiolio come di ossa sfregate
tra loro accompagna il cenno con cui mi fa capire che sono stato accettato al
suo cospetto.
«Buonasera, venga pure avanti, la stavo aspettando».
Aspettando… ehm…
«Crede forse che io non la veda? Anche se vivo al buio questi occhi ci
vedono benissimo, sa? Il mio occhio in realtà è composto da migliaia
di minuscoli ocelli, ciascuno perfettamente funzionale, e questo mi assicura
qualche vantaggio sul vostro sistema visivo.
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Granchio arlecchino (Lissocarcinus orbicularis)
Foto di Massimo BOYER
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In primis, modestamente, ho una certa facilità nel percepire
un’oggetto in movimento. Se lei stesse perfettamente immobile ai margini
del mio campo visivo potrebbe forse sfuggire alla mia attenzione, ma alzi un
mignolo… Un oggetto in movimento nel mio campo visivo stimola in successione
ocelli diversi e… zac! Per me è un gioco individuarla. Sa quante
volte l’ho già vista, con la sua ridicola muta, pinneggiare goffamente
attorno alla mia grotta?
Posso adattarmi a vedere in ogni condizione di luce, dal riverbero del meriggio
sulla sabbia bianca all’oscurità quasi totale delle notti senza luna.
Un pigmento scuro riveste e avvolge lateralmente i miei ocelli: se lo sposto
verso l’esterno posso eliminare i riflessi in presenza di luce intensa,
ritraendolo posso sfruttare al meglio il minimo raggio di luce. Altro che occhiali
da sole…
Non parliamo poi del campo visivo: qualcuno della vostra specie può affermare
di poter vedere a 360º, tutto attorno a sé? Beh, io sì, i miei
occhi composti piazzati su un peduncolo che li solleva al di sopra del capo
me lo permettono. Anche se in tutta onestà devo ammettere che percepisco
immagini nitide solo degli oggetti che mi stanno davanti.
E poi con queste antenne posso sentire le vibrazioni dell’acqua
quando si avvicina, posso percepire il suo odore, udire il suono delle sue bolle.
Coi peli delle mie zampe percepisco le vibrazioni che trasmette alla sabbia
quando vi si appoggia. Le basta?»
Sì, ho capito che lei ha sentito la mia presenza. Ma io non ho intenzioni
cattive, ero qui solo per intervistarla…
«E io gliela concedo di buon grado, questa intervista. Spero che lei abbia
portato abbastanza nastro, perché la mia è una lunga storia. Siamo
una stirpe molto antica, la notte dei tempi ci ha generati e l’oscurità
ci è amica. La nostra storia comincia circa 550 milioni di anni fa…».
Ehm… veramente io pensavo di prendere qualche appunto sulla mia lavagnetta
subacquea… Però ho portato la macchina fotografica per immortalarla…
«E va bene, cominciamo, altrimenti perderò la pazienza. Cerchi di
riprendermi in modo da valorizzare I miei occhi cangianti. Dunque, la nostra
stirpe, che modestamente è piuttosto dotata, fece la sua comparsa negli
oceani e nelle lagune del periodo Cambriano. Alcuni accorgimenti evolutivi,
tra cui il possesso di zampe articolate, ci permise rapidamente di prendere
il sopravvento sulle altre forme di vita e di diventare dominanti rispetto a
vermi ed echinodermi, con cui dividevamo l’ambiente. Fu un periodo aureo,
la nuova capacità di movimento ci dava un vantaggio evolutivo enorme su
tutti i competitori. Eravamo dominanti, dividevamo gli oceani con i cefalopodi,
coi quali avevamo trovato un buon compromesso.
Guardi un po’ le sue zampe…»
…Ehm, veramente noi le chiamiamo braccia e gambe…
«Ma le chiami un po’ come vuole! Lei crede che il vostro sistema
di movimento sia l’unico possibile. Ecco qui, noi da 550 milioni di anni
ne utilizziamo uno progettato in maniera opposta. i nostri muscoli non funzionano
tirando le ossa dall’esterno, ma agiscono facendo leva dall’interno
di pezzi scheletrici cavi. Lo scheletro esterno, questa corazza, oltre a proteggerci
da urti e ferite ci permette di sviluppare una forza notevole: provi a sollevare
oggetti che pesano molto piu’ di lei. Me lo lasci dire, siamo riusciti
piuttosto bene. Abbiamo superato estinzioni di massa e catastrofi naturali,
sempre rinascendo in una posizione dominante.
Ma nel frattempo la nostra nemesi si preparava. Esserini guizzanti, coperti
di muco, dannatamente veloci e difficili da afferrare, cominciavano a diffondersi
un po’ dovunque. La grande piaga stava prendendo forma…»
Aspetti, mi dica della muta.
«Ecco, è furbo lei… ha messo il dito sulla piaga. In effetti
lo scheletro esterno presenta un inconveniente: manca di elasticità, è
rigido. Man mano che cresciamo inizia a diventare stretto, e ad un certo punto
bisogna cambiarlo. È il momento della muta, un momento di profondo rinnovamento,
temuto ma atteso con trepidazione da tutti noi, specie dai più giovani.
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Squilla arcobaleno (Odontactylus scyllarus)
Foto di Massimo BOYER
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Una strana irrequietezza ci prende, dobbiamo muoverci, cercare
un nascondiglio. Ci sentiamo gonfiare, schiacciati contro le pareti rigide di
una corazza ormai stretta. Improvvisamente il vecchio scheletro cigolante si
spacca sul dorso, e ce ne liberiamo con pochi movimenti decisi. Il nuovo scheletro
è già pronto, ma è molle, flessibile. Le zampe sono malferme,
non reggono il peso del corpo, tendono a flettersi. Ci muoviamo come ubriachi,
ci appiattiamo in fondo ai nostri rifugi, e lì, sperando che nessuno venga
a disturbarci, aspettiamo che il nuovo scheletro si indurisca.
Per molti di noi sono ore da incubo. Immagini dover attendere, incapace di muoversi,
di fuggire, completamente indifeso, mentre fuori dal buco, a pochi centimetri
di distanza, le potenti mascelle di pesci predatori affilano le zanne con sinistro
stridore. In questo momento siamo soli, dobbiamo aver paura anche dei nostri
simili. Pensi che alcuni di noi non disdegnano il cannibalismo! E basterebbe
la dentatura di un pesce farfalla per aver ragione della corazza molle.
Intanto il nostro corpo assorbe acqua, si gonfia, ci sentiamo espandere
sotto questa corazza tenera che man mano che si dilata perde la sua elasticità.
E alla fine abbiamo un abito nuovo, un po’ abbondante, oversize direbbe
qualcuno di voi. Per la crescita, diciamo noi, previdenti. Questo ci consentirà
di aumentare di peso fino a riempire anche il nuovo scheletro, e sarà di
nuovo ora di cambiare.
Ma c’è di più. Questo momento terribile per alcuni di noi coincide
con il tempo dell’amore. Le femmine di molte specie possono accoppiarsi
solo durante la muta, altrimenti non sono ricettive. Solo al momento in cui
depongono la vecchia corazza possiamo congiungerci carnalmente. E allora tocca
a noi maschi proteggerle, con l’abbraccio di 10 ruvide zampe su quella
corazza tenera, che sentiamo inturgidire sotto le nostre carezze… Tra
l’altro, ho sentito qualcuno della vostra specie asserire che l’accoppiamento
in posizione frontale lo avreste inventato voi o sbaglio? Lei come pensa che
facessimo, noi, qualche centinaio di milioni di anni fa?»
Probabilmente vi accoppiavate in posizione frontale, non voglio mettere in dubbio
quanto mi dice. Mi stava dicendo della grande piaga.
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Gambero dei crinoidi (Periclimenes amboinensis)
Foto di Massimo BOYER
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«Eccola. Li vede qui attorno, guizzare e nuotare senza sosta,
sprecare le loro energie? Circa 410 milioni di anni fa fecero la loro comparsa
i primi pesci dotati di scheletro osseo e di mascelle. I nostri padri capirono
subito che sarebbe iniziato un periodo duro. Vede, oltre al fatto di dover spendere
molte energie ed affrontare rischi enormi nel momento della muta, l’altro
grosso inconveniente che ci portiamo dietro è quello di essere troppo buoni.
Una perfetta miscela di proteine e zuccheri, aminoacidi nobili in grande quantità,
pochi grassi e tutti polinsaturi. Siamo dieteticamente perfetti, ecco la nostra
sfortuna!
Siamo la preda ideale. E non abbiamo neppure modo di difenderci con veleni o
simili. Troppo buoni! Le sembra che dei parvenu come i pesci potessero lasciarsi
scappare l’occasione di procurarsi proteine nobili senza troppa fatica?
Certo che no! Ed ecco comparire nella loro evoluzione mascelle sempre piu’
forti, piu’ allungate, adatte per catturarci nei nostri anfratti, per
risucchiarci fuori, per schiantare il nostro scheletro, tagliarlo, lacerarlo,
sminuzzarlo, per resistere alle strette delle nostre chele. Ecco: oggi noi siamo
condannati ad aspettare al chiuso dei nostri rifugi durante il giorno e a vivere
di notte, quando la maggior parte dei pesci dorme. Specie in un ambiente come
la barriera corallina di queste isole vulcaniche del Pacifico, dove i pesci
sono tantissimi e le loro tecniche di caccia sono così diversificate.
Lo sa quanti dei miei simili ho visto finire schiacciati dai denti molariformi
di un labride, una pressione che cresce sulla tua corazza fino a farla esplodere
dall’interno e a far schizzare le tue carni tutto attorno? O tranciati
in due dalle lame affilate di uno squalo, risucchiati dall’enorme bocca
di una cernia o dal diabolico tubo aspirante di un cavalluccio marino per finire
a dibattersi tra i succhi gastrici che ti dissolvono vivo, orrendamente maciullati
dalle tozze zanne devastatrici di un pesce balestra? Per non parlare di quelli
di noi che finiscono nelle vostre mani. Degni discendenti dei pesci, l’alternativa
che voi ci offrite è spegnerci lentamente in un congelatore o finire lessati
vivi nell’acqua bollente.
Viviamo di notte, le tenebre ci proteggono quando ci spostiamo veloci
lungo le scogliere, nella ricerca notturna del cibo. Le tenebre sono amiche
del nostro occhio composto, del nostro sofisticato sistema sensoriale, più
adatto del vostro a funzionare in presenza di livelli bassissimi di luminosità.
Ma vivere di notte e nascondersi di giorno è sempre meglio che umiliarsi,
come molti della nostra stirpe ahimé fanno, a simbiosi degradanti pur di
passare inosservati. Cerchi tra i tentacoli urticanti di un’anemone di
mare, frughi tra i bracci articolati di un crinoide, osservi con attenzione
gli anfratti sulla superficie di una madrepora. Esplori le gorgonie, i coralli
neri. Guardi bene su nudibranchi, oloturie e stelle di mare, cerchi attentamente
tra gli aculei dei ricci di mare. Dovunque ci sia un animale poco o per nulla
gradito ai pesci, lì troverà uno di noi. Condannato a vivere in simbiosi,
adattatosi a resistere in un ambiente sfavorevole ai più, camuffato sapientemente,
certo di sfuggire alla maggior parte dei possibili predatori.
Altri si condannano, novelli Atlante, a portare sulle spalle per
tutta la vita un anemone o un pezzo di spugna, per nascondercisi sotto in caso
di pericolo.
Ma i peggiori soggetti, i traditori della nostra stirpe, sono quelli che ai
pesci si sono asserviti, rinunciando alla libertà in cambio di protezione.
Si guardi attorno, vedrà alcuni dei miei simili degradati al rango di pulitori,
mendicare un residuo di cibo impigliato tra i denti di una murena, ricevere
salva la vita in cambio di un servizio umiliante. Servizio che tra l’altro
siamo in grado di svolgere meglio di qualunque pesce. Lo sa lei che i pesci
più esperti, quando hanno qualcosa in un occhio o in una branchia, nelle
parti più delicate insomma, vanno dal gamberetto pulitore, non dal labride
che svolge la stessa funzione. La bocca di un pesce può sbagliare mira
e far male, la chela di un crostaceo lo fa raramente.
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Gambero dei ghiozzi (Alpheus ochrostriatus)
Foto di Massimo BOYER
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Ma questo non è ancora il peggio: ci sono cugini gamberetti
che scavano abilmente una tana bellissima, la mantengono pulita e sgombra da
detrito, ne hanno cura, la fanno un po’ più ampia del necessario,
e sa perché? Ma per poterla dividere con un pesce, un ghiozzo, che sfrutta
il loro lavoro in cambio di un po’ di protezione. Li osservi: il gambero
lavora incessantemente a pulire e migliorare la casa comune, il ghiozzo che
fa? Se ne sta fermo all’apertura e si guarda intorno, per avvisare il
compagno con un colpetto di coda nel caso che un pericolo si avvicini. E noi
lavoriamo! Li perdòno perché la vita sotterranea li ha resi quasi
ciechi, in un certo senso si può dire che addomestichino il ghiozzo per
servirsene come si dice che facciate voi con i cani.
Ma ora basta, sono stanco di parlare e ho fame. L’oscurità incombe,
è tempo di muoversi.»
Un sobbalzo, forse un’espirazione un po’ troppo brusca, il rumore
delle bolle, ed il grosso granchio che mi stava davanti rientra a precipizio
nel suo buco. È stato solo un sogno a occhi aperti?
La riserva d’aria sta per finire, è ora di lasciare il mondo marino.
Risalgo verso la superficie. Il granchio che rispunta dal suo buco, mi squadra
per l’ultima volta. Un peduncolo oculare si abbassa e si rialza, l’impressione
da lontano è di una strizzatina d’occhio. Effetto narcotico dell’azoto?
Mentre risalgo sulla scaletta della barca un suono, uno scricchiolio
come di ossa sfregate tra loro, mi fa voltare verso il basso. Era solo il mio
ginocchio, appesantito da qualche calcificazione (uno degli inconvenienti del
nostro scheletro interno e dell’andatura bipede). Una strana irrequietezza
mi prende….
@ Crostacei. Scheda biologica
Quello dei crostacei per gli zoologi è un sottotipo appartenente al tipo
degli artropodi, con insetti, ragni, centopiedi. Tutti gli artropodi sono caratterizzati
da corpo segmentato, scheletro esterno e zampe articolate. Se è vero che
nel corso dell’evoluzione della vita sulla terra la comparsa dei vertebrati
ha rappresentato per gli artropodi, piccoli di dimensioni ed altamente nutrienti,
l’arrivo di formidabili rivali e predatori, e spesso ha un’influenza
determinante sull’evoluzione dei loro comportamenti, è vero altresì
che gli artropodi restano il tipo animale dominante sulla terra per numero di
specie e di individui.
Lo scheletro esterno, che deve essere cambiato con la crescita, ne limita le
possibilita’ di accrescimento, ma tra le taglie piccola e medio-piccola
insetti e artropodi in genere hanno pochi rivali.
Pensate che, su 1.400.000 circa di specie conosciute (tra animali, piante e
microorganismi), 875.000 specie sono artropodi. Di questi 750.000 sono gli insetti,
ma anche i crostacei con oltre 31.000 specie sono un gruppo di tutto rispetto.
Tanto per avere un termine di paragone, i pesci viventi sono circa 18.000.
Segue una tabella riassuntiva delle principali suddivisioni del tipo artropodi,
con speciale enfasi per i gruppi marini che possono essere più facilmente
osservati dal subacqueo. La tabella è ben lungi dall’essere completa
(le classi in cui si sudividono i crostacei sarebbero in realtà 8), abbiamo
voluto limitarci a ciò che il subacqueo può ragionevolmente osservare
in immersione.
Come si può osservare, la maggior parte dei crostacei più grossi e
più noti (granchi, gamberi, aragoste, paguri) appartengono alla classe
dei malacostraci ed in particolare all’ordine dei decapodi (10 zampe principali,
di cui il primo paio solitamente è modificato in chele).
Sottotipo
|
Classe
|
Ordine
|
Infraordine
|
Esempi
|
Trilobitomorfi
|
Trilobiti (estinti)
|
Chelicerati
|
Ragni, scorpioni, acari
|
Crostacei
|
Ostracodi
|
Planctonici
|
Copepodi
|
Planctonici e parassiti
|
Cirripedi
|
Balani e lepadi
|
Malacostraci
|
Stomatopodi
|
Gamberi-mantide
|
Eufausiacei
|
Planctonici (krill)
|
Isopodi
|
Pulci d’acqua
|
Anfipodi
|
Pulci d’acqua
|
Decapodi
|
Peneidi
|
Mazzancolle
|
Stenopodidei
|
Gamberetti
|
Caridei
|
Gamberetti
|
Astacidei
|
Astici e scampi
|
Palinuri
|
Aragoste
|
Anomuri
|
Paguri e galatee
|
Brachiuri
|
Granchi
|
Unirami
|
Insetti, millepiedi
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