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  Gli Articoli di MondoMarino.net
Marea nera
- Seconda parte -
di Fabio RUSSO


  
Immagine gentilmente concessa dal Corriere della Sera
L'esperienza sta a dimostrare che anche dopo immani catastrofi dovute ad inquinamento da petrolio, esiste una rigenerazione naturale. Abbiamo un esempio nel caso di naufragio della Urquiola, davanti a La Coruna, nel 1976, quando tutta la zona fu "appestata". Un anno più tardi, nel giugno del 1977, alcune specie pioniere come le alghe verdi avevano nuovamente invaso gli scogli, già ricoperti di catrame, e furono notate nuovamente fitte colonie di mitili ed altri molluschi aggrappate alle rocce (in effetti alcune specie di alghe e i mitili sono le prime specie a ricomparire dopo un disastro ecologico fatto dovuto sia alla loro alta capacità di dispersione ambientale sia alla loro relativa resistenza a basse concentrazioni di inquinanti). Le baie a La Coruna tornarono bianche come una volta e l'acqua è azzurra come sempre. Per il profano, il mondo era tornato pulito, ma il giudizio, fondato su analisi scientifiche, non era altrettanto positivo: gli insediamenti erano avvenuti ad opera di singoli individui giovani, di robusti pionieri appunto, tornati sul luogo in massa. Si trattava soprattutto di larve, viventi nelle libere acque, che erano state portate da altre zone non inquinate su quelle coste. Data la mancanza di elementi «concorrenti» o nemici, avevano avuto la possibilità di riprodursi in forma esplosiva. Il prosperare, in tale preponderante misura, di una sola o di singole specie offre allo studioso un indizio che l'equilibrio comunitario della vita ancora non si è ristabilito. Solo al ristabilirsi dell'intero ecosistema, con la rinnovata presenza di tutte le specie, si può affermare che i danni provocati dall'inquinamento sono stati riparati. Ciò può avvenire soltanto dopo decenni. Quanto più differenziata è la composizione dell'olio versato e dei danni da esso derivanti, tanto più incerto è il numero di anni occorrente per il totale risanamento dell'ambiente. Per esempio, la disgregazione del greggio nei mari caldi avviene più rapidamente, come anche lungo coste rocciose esposte al calore solare, nelle spiagge battute dalla risacca, in cui le sabbie siano più grandiose. Invece sulle piatte, fangose secche del più freddo Mare del Nord, la rigenerazione si verifica molto più lentamente. I tempi variano anche a seconda della provenienza del greggio; se, per esempio viene dalla Libia o dall'Indonesia e se il prodotto è greggio oppure raffinato. La sopravvivenza degli organismi dipende poi da molti fattori, apparentemente secondari: il petrolio filtra lentamente, per giorni interi, nel mare, permettendo un «assorbimento» dell'inquinamento. Il tempo e le condizioni atmosferiche sono favorevoli ad una rapida evaporazione delle sostanze volatili particolarmente velenose. Ed ancora, se al momento della catastrofe era in atto presso le specie viventi la stagione di riproduzione, di crescita o quando la maggior parte dei pesci depongono le uova.

@ L'uomo cosa può fare?

Che persino i maggiori esperti non abbiano saputo sinora dare una risposta valida dipende dalla mancanza di sufficiente esperienza in materia. Gli studi e le analisi scientifiche sono insufficienti. Inoltre, i singoli fatti non fanno testo, poiché le sciagure si verificano in posti sempre diversi e le zone interessate hanno diversi presupposti climatici e geologici. Sinora, un solo metodo sì è rivelato efficace per combattere gli esiti di simili inquinamenti: quello meccanico, a base di vanghe, secchi e pompe. Un piccolo, capillare lavoro molto faticoso. Costituire barriere contro il petrolio, per impedirne il dilagare in zone ancora indenni. Pompe, installate su mare e su terra, raccolsero in Bretagna, in meno di tre settimane, 60.000 tonnellate di petrolio, alghe e sabbia, una cifra che corrisponde a 10-15.000 tonnellate di
  
Immagine gentilmente concessa dal Corriere della Sera
petrolio puro. Una delle soluzioni più utilizzate in passato per rimediare in questi casi all'inquinamento accidentale da petrolio consisteva nell'irrorare le pellicole oleose con sostanze emulsionanti. Le emulsioni risultavano, tuttavia, in qualche caso molto più dannose del petrolio stesso e tale tecnica è stata pertanto progressivamente abbandonata. La sciagura della «Torrey Canyon », (1976 Sud della Cornovaglia) ci ha dimostrato quanto sia pericoloso per la biologia delle acque l'impiego dei solventi chimici del petrolio. I danni maggiori derivarono non tanto dal greggio fuoriuscito nel mare, quanto dalle 10.000 tonnellate di detergenti usati. Questi prodotti non riescono, infatti, ad eliminare o distruggere il petrolio, ma si limitano a disgregarlo in particelle finissime; specie se il mare è grosso, le spiagge già impestate riacquistano abbastanza rapidamente un aspetto pulito, ma si tratta di un'apparenza che inganna. L'olio così disintegrato arriva più in profondità e minaccia anche quelle forme di vita marina che le grosse chiazze galleggianti in superficie avevano risparmiato. Sulle coste, l'olio in dispersione penetra profondamente nel terreno, arrivando persino ad inquinare le acque sotterranee costiere. Nelle zone delle secche litoranee, già inquinate dagli scarichi industriali domestici, una catastrofe « petrolifera » avrebbe conseguenze micidiali. Oggi, come già detto, si preferisce ricorrere a barriere galleggianti o a speciali imbarcazioni che raccolgono il petrolio "raschiandolo via" dalla superficie del mare; le macchie di petrolio vengono ancora spruzzate con agenti emulsionanti solo nel caso in cui minaccino di raggiungere la costa. Il petrolio che si riversa sulle spiagge non viene sottoposto ad alcun trattamento: in genere si preferisce aspettare che provvedano i normali meccanismi di decomposizione a degradarlo. Nel caso in cui a essere colpite siano località balneari, si preferisce rimuovere gli strati superficiali di sabbia, piuttosto che ricorrere a solventi ed emulsionanti, i quali farebbero penetrare il petrolio più in profondità. I solventi vengono ancora utilizzati solo per ripulire impianti e attrezzature.

@ La legge non basta

Nelle Galapagos si sono trovati a rischio soprattutto due delle centinaia di specie presenti sulle isole: il Cormorano Attero (Phalacrocorax harrisi) e il Pinguino delle Galapagos (Spheniscus mendiculus). L'altissima specializzazione delle centinaia di specie animali (molte delle quali "endemiche", esistenti esclusivamente lì) presenti sulle isole avrebbe potuto rendere ancora più difficile qualunque loro adattabilità alle nuove condizioni ambientali che il disastro avrebbe provocato. Ai danni "invisibili" che comunque sono stati prodotti dal combustibile "bunker" e diesel si sono aggiunti quelli prodotti dalle migliaia di litri di solventi utilizzati per disciogliere il petrolio: in un'area così delicata sarebbe stato molto meglio intervenire aspirando il petrolio versato. Purtroppo a tutt'oggi c'è un enorme differenza tra ciò che accade nei mari dell'America meridionale e quelli del Continente settentrionale. Una petroliera come la Jessica non sarebbe mai potuta entrare negli Stati Uniti: qui tutte le petroliere devono avere garanzie dal punto di vista assicurativo e finanziario (la Jessica era una nave vecchia e senza nessun tipo di assicurazione) e sui contratti rispetto alle società che intervengono in caso di inquinamento. Nelle acque delle Galapagos, invece, come molte altre parti del mondo, Mediterraneo compreso, si
  
Immagine gentilmente concessa dal Corriere della Sera
naviga quasi senza regole. Per il mediterraneo la questione è particolarmente grave se si pensa che ogni giorno vi transitano in media 250-300 petroliere. Un traffico che rappresenta più del 20% di quello mondiale, con 360 milioni di tonnellate di petrolio l'anno. La cosa più scioccante è che per i danni ambientali non sono previsti risarcimenti assicurativi. Le compagnie di assicurazione, infatti, finanziate quasi totalmente dalle stesse compagnie petrolifere, concedono rimborsi per i danni economici ma non per quelli causati all'ambiente. Le regole, in teoria ci sarebbero, ma restano tutte sulla carta infatti né gli Stati né le compagnie petrolifere hanno a tutt'oggi personale competente in grado di verificare la documentazione imposta dalle Convenzioni internazionali come la MARPOL, sull'inquinamento marino, o la SOLAS sulla sicurezza della navigazione.  Queste convenzioni impongono a chi governa le petroliere di verificare le condizioni strutturali e operative delle navi. Ma le condizioni disastrose sia per anzianità sia per scarsa manutenzione in cui versa la maggior parte delle imbarcazioni, per parlare solo delle 174 unità che compongono la flotta italiana, fino allo scorso anno solo il 30% era stato adeguato alle attuali norme internazionali evidenziano che i controlli effettuati dalle autorità marittime non sono assolutamente efficaci e spesso mancano gli strumenti di analisi e calcolo adatti. Spesso il personale non e' formato nella lettura dei documenti a bordo. Mentre esiste anche l'obbligo del doppio scafo per le navi cisterna costruite a partire dal '96 oltre alle 5mila tonnellate in base alle regole OMI della Convenzione MARPOL, navi di stazza superiore alla norma, senza il doppio scafo, caricate oltre ogni misura lecita e con ben più di 18 anni di uso continuo transitavano liberamente anche nel beneamato Mare Nostrum. Comunque alla luce dei numerosi incidenti verificatisi in questi ultimi anni, è non solo necessario accorciare i tempi della riconversione della flotta, come già richiesto da Francia e Italia, ma anche dichiarare "Aree Particolarmente sensibili" e interdette a qualunque traffico di navi pericolose o inquinanti, com'è avvenuto già per la Grande Barriera Corallina australiana, le Galapagos e alcune zone del mediterraneo particolarmente fragili, come le Bocche di Bonifacio e l'Alto Adriatico, attraversate ogni giorno da navi cariche di petrolio e altre sostanze inquinanti.


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