L'esperienza sta a dimostrare che anche dopo immani catastrofi
dovute ad inquinamento da petrolio, esiste una rigenerazione naturale. Abbiamo
un esempio nel caso di naufragio della Urquiola, davanti a La Coruna, nel 1976,
quando tutta la zona fu "appestata". Un anno più tardi, nel giugno del 1977, alcune
specie pioniere come le alghe verdi avevano nuovamente invaso gli scogli, già
ricoperti di catrame, e furono notate nuovamente fitte colonie di mitili ed altri
molluschi aggrappate alle rocce (in effetti alcune specie di alghe e i mitili
sono le prime specie a ricomparire dopo un disastro ecologico fatto dovuto sia
alla loro alta capacità di dispersione ambientale sia alla loro relativa resistenza
a basse concentrazioni di inquinanti). Le baie a La Coruna tornarono bianche come
una volta e l'acqua è azzurra come sempre. Per il profano, il mondo era tornato
pulito, ma il giudizio, fondato su analisi scientifiche, non era altrettanto positivo:
gli insediamenti erano avvenuti ad opera di singoli individui giovani, di robusti
pionieri appunto, tornati sul luogo in massa. Si trattava soprattutto di larve,
viventi nelle libere acque, che erano state portate da altre zone non inquinate
su quelle coste. Data la mancanza di elementi «concorrenti» o nemici, avevano
avuto la possibilità di riprodursi in forma esplosiva. Il prosperare, in tale
preponderante misura, di una sola o di singole specie offre allo studioso un indizio
che l'equilibrio comunitario della vita ancora non si è ristabilito. Solo al ristabilirsi
dell'intero ecosistema, con la rinnovata presenza di tutte le specie, si può affermare
che i danni provocati dall'inquinamento sono stati riparati. Ciò può avvenire
soltanto dopo decenni. Quanto più differenziata è la composizione dell'olio versato
e dei danni da esso derivanti, tanto più incerto è il numero di anni occorrente
per il totale risanamento dell'ambiente. Per esempio, la disgregazione del greggio
nei mari caldi avviene più rapidamente, come anche lungo coste rocciose esposte
al calore solare, nelle spiagge battute dalla risacca, in cui le sabbie siano
più grandiose. Invece sulle piatte, fangose secche del più freddo Mare del Nord,
la rigenerazione si verifica molto più lentamente. I tempi variano anche a seconda
della provenienza del greggio; se, per esempio viene dalla Libia o dall'Indonesia
e se il prodotto è greggio oppure raffinato. La sopravvivenza degli organismi
dipende poi da molti fattori, apparentemente secondari: il petrolio filtra lentamente,
per giorni interi, nel mare, permettendo un «assorbimento» dell'inquinamento.
Il tempo e le condizioni atmosferiche sono favorevoli ad una rapida evaporazione
delle sostanze volatili particolarmente velenose. Ed ancora, se al momento della
catastrofe era in atto presso le specie viventi la stagione di riproduzione, di
crescita o quando la maggior parte dei pesci depongono le uova.
@ L'uomo cosa può fare?
Che persino i maggiori esperti non abbiano saputo sinora dare una risposta
valida dipende dalla mancanza di sufficiente esperienza in materia. Gli studi
e le analisi scientifiche sono insufficienti. Inoltre, i singoli fatti non fanno
testo, poiché le sciagure si verificano in posti sempre diversi e le zone interessate
hanno diversi presupposti climatici e geologici. Sinora, un solo metodo sì è
rivelato efficace per combattere gli esiti di simili inquinamenti: quello meccanico,
a base di vanghe, secchi e pompe. Un piccolo, capillare lavoro molto faticoso.
Costituire barriere contro il petrolio, per impedirne il dilagare in zone ancora
indenni. Pompe, installate su mare e su terra, raccolsero in Bretagna, in meno
di tre settimane, 60.000 tonnellate di petrolio, alghe e sabbia, una cifra che
corrisponde a 10-15.000 tonnellate di
petrolio puro. Una delle soluzioni più utilizzate in passato per rimediare
in questi casi all'inquinamento accidentale da petrolio consisteva nell'irrorare
le pellicole oleose con sostanze emulsionanti. Le emulsioni risultavano, tuttavia,
in qualche caso molto più dannose del petrolio stesso e tale tecnica è stata
pertanto progressivamente abbandonata. La sciagura della «Torrey Canyon », (1976
Sud della Cornovaglia) ci ha dimostrato quanto sia pericoloso per la biologia
delle acque l'impiego dei solventi chimici del petrolio. I danni maggiori derivarono
non tanto dal greggio fuoriuscito nel mare, quanto dalle 10.000 tonnellate di
detergenti usati. Questi prodotti non riescono, infatti, ad eliminare o distruggere
il petrolio, ma si limitano a disgregarlo in particelle finissime; specie se
il mare è grosso, le spiagge già impestate riacquistano abbastanza rapidamente
un aspetto pulito, ma si tratta di un'apparenza che inganna. L'olio così disintegrato
arriva più in profondità e minaccia anche quelle forme di vita marina che le
grosse chiazze galleggianti in superficie avevano risparmiato. Sulle coste,
l'olio in dispersione penetra profondamente nel terreno, arrivando persino ad
inquinare le acque sotterranee costiere. Nelle zone delle secche litoranee,
già inquinate dagli scarichi industriali domestici, una catastrofe « petrolifera
» avrebbe conseguenze micidiali. Oggi, come già detto, si preferisce ricorrere
a barriere galleggianti o a speciali imbarcazioni che raccolgono il petrolio
"raschiandolo via" dalla superficie del mare; le macchie di petrolio
vengono ancora spruzzate con agenti emulsionanti solo nel caso in cui minaccino
di raggiungere la costa. Il petrolio che si riversa sulle spiagge non viene
sottoposto ad alcun trattamento: in genere si preferisce aspettare che provvedano
i normali meccanismi di decomposizione a degradarlo. Nel caso in cui a essere
colpite siano località balneari, si preferisce rimuovere gli strati superficiali
di sabbia, piuttosto che ricorrere a solventi ed emulsionanti, i quali farebbero
penetrare il petrolio più in profondità. I solventi vengono ancora utilizzati
solo per ripulire impianti e attrezzature.
@ La legge non basta
Nelle Galapagos si sono trovati a rischio soprattutto due delle centinaia
di specie presenti sulle isole: il Cormorano Attero (Phalacrocorax harrisi)
e il Pinguino delle Galapagos (Spheniscus mendiculus). L'altissima
specializzazione delle centinaia di specie animali (molte delle quali "endemiche",
esistenti esclusivamente lì) presenti sulle isole avrebbe potuto rendere ancora
più difficile qualunque loro adattabilità alle nuove condizioni ambientali che
il disastro avrebbe provocato. Ai danni "invisibili" che comunque sono stati
prodotti dal combustibile "bunker" e diesel si sono aggiunti quelli prodotti
dalle migliaia di litri di solventi utilizzati per disciogliere il petrolio:
in un'area così delicata sarebbe stato molto meglio intervenire aspirando il
petrolio versato. Purtroppo a tutt'oggi c'è un enorme differenza tra ciò che
accade nei mari dell'America meridionale e quelli del Continente settentrionale.
Una petroliera come la Jessica non sarebbe mai potuta entrare negli Stati Uniti:
qui tutte le petroliere devono avere garanzie dal punto di vista assicurativo
e finanziario (la Jessica era una nave vecchia e senza nessun tipo di assicurazione)
e sui contratti rispetto alle società che intervengono in caso di inquinamento.
Nelle acque delle Galapagos, invece, come molte altre parti del mondo, Mediterraneo
compreso, si
naviga quasi senza regole. Per il mediterraneo la questione è
particolarmente grave se si pensa che ogni giorno vi transitano in media 250-300
petroliere. Un traffico che rappresenta più del 20% di quello mondiale, con
360 milioni di tonnellate di petrolio l'anno. La cosa più scioccante è che per
i danni ambientali non sono previsti risarcimenti assicurativi. Le compagnie
di assicurazione, infatti, finanziate quasi totalmente dalle stesse compagnie
petrolifere, concedono rimborsi per i danni economici ma non per quelli causati
all'ambiente. Le regole, in teoria ci sarebbero, ma restano tutte sulla carta
infatti né gli Stati né le compagnie petrolifere hanno a tutt'oggi personale
competente in grado di verificare la documentazione imposta dalle Convenzioni
internazionali come la MARPOL, sull'inquinamento marino, o la SOLAS sulla sicurezza
della navigazione. Queste convenzioni impongono a chi governa le petroliere
di verificare le condizioni strutturali e operative delle navi. Ma le condizioni
disastrose sia per anzianità sia per scarsa manutenzione in cui versa la maggior
parte delle imbarcazioni, per parlare solo delle 174 unità che compongono la
flotta italiana, fino allo scorso anno solo il 30% era stato adeguato alle attuali
norme internazionali evidenziano che i controlli effettuati dalle autorità marittime
non sono assolutamente efficaci e spesso mancano gli strumenti di analisi e
calcolo adatti. Spesso il personale non e' formato nella lettura dei documenti
a bordo. Mentre esiste anche l'obbligo del doppio scafo per le navi cisterna
costruite a partire dal '96 oltre alle 5mila tonnellate in base alle regole
OMI della Convenzione MARPOL, navi di stazza superiore alla norma, senza il
doppio scafo, caricate oltre ogni misura lecita e con ben più di 18 anni di
uso continuo transitavano liberamente anche nel beneamato Mare Nostrum. Comunque
alla luce dei numerosi incidenti verificatisi in questi ultimi anni, è non solo
necessario accorciare i tempi della riconversione della flotta, come già richiesto
da Francia e Italia, ma anche dichiarare "Aree Particolarmente sensibili" e
interdette a qualunque traffico di navi pericolose o inquinanti, com'è avvenuto
già per la Grande Barriera Corallina australiana, le Galapagos e alcune zone
del mediterraneo particolarmente fragili, come le Bocche di Bonifacio e l'Alto
Adriatico, attraversate ogni giorno da navi cariche di petrolio e altre sostanze
inquinanti.
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